Il licenziamento del dirigente: giusta causa e giustificatezza

Sommario: 1. Introduzione. – 2. Il rapporto di lavoro dirigenziale: la tutela specifica. – 3. Il dirigente apicale e la giurisprudenza recente. – 4. Il licenziamento del dirigente. – 5. La giusta causa di recesso. – 6. L’onere della prova della giusta causa o della giustificatezza. – 7. La sentenza Cassazione 17 marzo 2014, n. 6110. – 8. Valutazioni conclusive.
Introduzione
La peculiarità della disciplina inerente il licenziamento dei dirigenti è stata oggetto di diverse pronunce da parte della Corte di Cassazione la quale – tenuto conto anche di quanto previsto dai due principali contratti collettivi, Commercio e Industria – ha cercato di inquadrare la fattispecie e di dirimere le questioni più controverse; uno dei problemi principali affrontati, anche dalla pronuncia in esame, ha riguardato i limiti che dividono la giusta causa dalla giustificatezza del licenziamento e – conseguentemente – il diritto del dirigente licenziato ad ottenere l’indennità del preavviso oppure, e in aggiunta, l’indennità supplementare: in termini economici ciò può voler dire l’attribuzione di una somma considerevole.
Non vi è alcun dubbio, in ogni caso, che al dirigente si applichi l’art. 7, L. 20.5.1970,
n. 300, al pari di ogni altro lavoratore anche privo di funzioni direttive; pertanto, nel caso di un recesso per giusta causa, anche il dirigente andrà applicata la medesima procedura prevista per i licenziamenti disciplinari ovvero: i) contestazione del fatto; ii) giustificazioni; iii) irrogazione della sanzione.
Tuttavia, e per completezza, va ricordato che al dirigente è collegata una disciplina particolare che lo esclude dall’ambito di applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, per quel che residua dopo l’intervento della Riforma Fornero; infatti, proprio in ragione delle peculiari caratteristiche del rapporto di lavoro dirigenziale, l’attribuzione di una specifica fiducia allo stesso – spesso vero e proprio alter ego del datore di lavoro – ne rende anche più semplice la dissoluzione, poiché un comportamento errato (anche solo nei modi) può molto facilmente determinare una danno all’azienda.
Questo non vuol dire, comunque, che il rapporto di lavoro dirigenziale sia privo di tutela, ma l’intera vicenda ruota attorno al riconoscimento della sussistenza o meno di una giusta causa di recesso: in questa stessa direzione si muove la Cassazione 17 marzo 2014, n. 6110, oggetto di questo commento.
Il rapporto di lavoro dirigenziale: la tutela specifica
La difficoltà a fornire un’esatta qualificazione giuridica del dirigente deriva, in primo luogo, dalla peculiarità delle mansioni che lo stesso svolge e, in secondo luogo, dalla scarsezza delle fonti normative che non aiutano a delinearne i criteri costitutivi; mancando un chiaro ed espresso riferimento legislativo (se si esclude quanto sommariamente stabilito dall’art. 2095 cod. civ.) gli unici strumenti che intervengono a fare chiarezza sono i contratti collettivi – con riferimento ai due contratti principali, ove risultano la maggior parte dei dirigenti assunti, ovvero Industria e Commercio – e la giurisprudenza, che ha lentamente limato la figura del dirigente sino ad inserirla all’interno di uno specifico contesto aziendale.
Partendo dai contratti collettivi si può facilmente notare che, tanto con riferimento al c.c.n.l. Industria che a quello per il settore Commercio, gli stessi richiamano espressamente la nozione ex art. 2094 cod. civ. riferita al prestatore di lavoro subordinato ovvero che il dirigente – oltre alla già citata subordinazione – debba essere necessariamente in possesso di un “… elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale” seppure sempre in diretta correlazione con l’imprenditore con il quale rimane chiaramente vincolato.
Tuttavia i tratti delineati dalla contrattazione collettiva appaiono ancora generici e prestano troppo il fianco a diverse interpretazioni, come poi in effetti è accaduto: solo la giurisprudenza è riuscita a meglio definire la figura del dirigente, ponendo maggiore attenzione alle funzioni da questo svolte e cercando di offrirne una classificazione (da cui discende una diversa tutela, anche risarcitoria, contro il licenziamento).
In questo senso, infatti, una larga parte della giurisprudenza ha insistito molto nel ruolo del dirigente quale alter ego dell’imprenditore, ovvero come colui il quale è addetto all’intera organizzazione aziendale o ad un settore dell’azienda stessa; questo filone giurisprudenziale ha quindi inteso delimitare l’attribuzione della qualifica di dirigente solo a coloro i quali abbiano un ruolo c.d. “apicale” nell’organigramma aziendale, ovvero siano dotati di ampissimi poteri e di autonomia gestionale da ritenerli dei veri e propri sostituti dell’imprenditore, ed ha creato la figura del c.d. “dirigente apicale” ovvero del preposto al vertice di un determinato settore aziendale, nettamente distinto dal c.d. “pseudo-dirigente” o dirigente convenzionale.
Il dirigente apicale e la giurisprudenza recente
Dal dirigente apicale la giurisprudenza distingue il c.d. “pseudo-dirigente” o anche dirigente per convenzione, ovvero l’impiegato con funzioni direttive che viene preposto ad un singolo ramo di servizio, ufficio o reparto, e che svolge la sua attività sotto il controllo dell’imprenditore come un ordinario dipendente e con poteri di iniziativa notevolmente ridotti; l’importanza di questa distinzione risiede nella tutela lavoristica che viene riconosciuta contro i licenziamenti. Infatti, se il dirigente apicale, il top manager, vede interamente applicarsi la possibilità di licenziamento ad nutum, il dirigente per convenzione o pseudo-dirigente, risultando un ordinario dipendente con funzioni direttive, ha piena facoltà di avvalersi della tutela reale contro i licenziamenti (cfr. sul punto anche A. Ripa, “Dirigenti e risoluzione del rapporto”, Ipsoa, 2009, 5-6.).
Cfr. Cass. civ., 24.6.2009, n. 14835:
“La qualifica di dirigente non spetta al solo prestatore di lavoro che, come alter ego dell’imprenditore, ricopra un ruolo di vertice nell’organizzazione o, comunque, occupi una posizione tale da poter influenzare l’andamento aziendale, essendo invece sufficiente che il dipendente, per l’indubbia qualificazione professionale, nonché per l’ampia responsabilità in tale ambito demandata, operi con un corrispondente grado di autonomia e responsabilità, dovendosi, a tal fine, far riferimento, in considerazione della complessità della struttura dell’azienda, alla molteplicità delle dinamiche interne nonché alle diversità delle forme di estrinsecazione della funzione dirigenziale (non sempre riassumibili a priori in termini compiuti) ed alla contrattazione collettiva di settore, idonea ad esprimere la volontà delle associazioni stipulanti in relazione alla specifica esperienza nell’ambito del singolo settore produttivo”
Nonostante ciò, la giurisprudenza più recente – anche recependo le esigenze di un mondo del lavoro in rapido mutamento, soprattutto nell’ambito dell’area manageriale – ha sensibilmente cambiato orientamento ed ha superato la precedente visione del dirigente quale alter ego dell’imprenditore; la nuova impostazione, infatti, tende a considerare le mansioni che effettivamente vengono svolte da parte del prestatore (a prescindere dal fatto che lo stesso ricopra un ruolo di vertice oppure no) insistendo maggiormente sulle capacità professionali del soggetto, sulla responsabilità e sul grado di autonomia del proprio operato.
“La qualifica di dirigente non spetta al solo prestatore di lavoro che, come alter ego dell’imprenditore, ricopra un ruolo di vertice nell’organizzazione o, comunque, occupi una posizione tale da poter influenzare l’andamento aziendale, essendo invece sufficiente che il dipendente, per l’indubbia qualificazione professionale, nonché per l’ampia responsabilità in tale ambito demandata, operi con un corrispondente grado di autonomia e responsabilità, dovendosi, a tal fine, far riferimento, in considerazione della complessità della struttura dell’azienda, alla molteplicità delle dinamiche interne nonché alle diversità delle forme di estrinsecazione della funzione dirigenziale (non sempre riassumibili a priori in termini compiuti) ed alla contrattazione collettiva di settore, idonea ad esprimere la volontà delle associazioni stipulanti in relazione alla specifica esperienza nell’ambito del singolo settore produttivo”.
Lo sviluppo della figura manageriale viene delineata tenendo conto dell’articolazione interna dell’azienda, della diversificazione dei ruoli, e della (spesso) promiscuità delle mansioni assegnate ai dipendenti; l’esigenza di un organigramma più agile, ma comunque connotato da diversi livelli di responsabilità ed autonomia, comporta indubbiamente l’abbandono della precedente visione monolitica del dirigente alter ego o sostituto dell’imprenditore: al top manager, quindi, si affiancano una serie di figure intermedie, dotate comunque di alta professionalità e di un discreto livello di autonomia gestionale e responsabilità.
Il licenziamento del dirigente
L’area di libera recedibilità all’interno della quale viene fatto rientrare il rapporto di lavoro del dirigente è, come visto, diretta conseguenza della particolarità delle mansioni che lo stesso svolge e che, inequivocabilmente, lo porta ad assumere delle responsabilità maggiori a quelle di un normale dipendente; il rapporto fiduciario che lega l’imprenditore al dirigente è chiaramente molto forte poiché a quest’ultimo viene affidato un ruolo di gestione connotato da una sensibile autonomia operativa, da cui ne discende una maggiore elasticità nel recesso del rapporto.
Non è un caso che per il dirigente si parli, pertanto, di recesso ad nutum ovvero “con un gesto” richiamando quell’esigenza di efficienza che viene pretesa dall’imprenditore nella gestione di determinati settori dell’azienda; anche la dottrina ha avuto modo di prendere posizione sull’argomento ed ha rimarcato questa essenziale distinzione, posta dal legislatore, tra il normale lavoro subordinato ed il lavoro dirigenziale, confermando l’importanza del rapporto fiduciario che intercorre tra le parti e dal quale discende l’assenza della ordinaria tutela legale contro i licenziamenti.
Sotto il profilo soggettivo è utile rilevare che, come per altro già in parte analizzato nell’introduzione, non a tutti i dirigenti si applica questa speciale disciplina del recesso ad nutum. Infatti, tenuto conto di una formale gerarchia interna tra i dirigenti – valutata in relazione all’effettivo ruolo svolto, ed al grado di responsabilità ed autonomia assunto – rimangono esclusi i c.d. dirigenti per convenzione o “pseudo-dirigenti” i quali, nei fatti, sono comuni lavoratori subordinati preposti a funzioni direttive molto limitate; questa esclusione ha portato, nel tempo, alla formazione di una categoria di dirigenti anomali (detti anche mini-dirigenti) ai quali finiscono per applicarsi tutte le garanzie legali contro il licenziamento, compresa quella ex art. 7, l. 20.5.1970, n. 300, di cui alla sentenza in esame.
Ragionamento a parte deve essere fatto con riguardo alla c.d. “giustificatezza” del recesso del rapporto di lavoro con il dirigente, sulla quale la giurisprudenza ha molto insistito (cfr. Tra le sentenze più recenti: Cass. 6.10.1998, n. 9896; Cass. 19.8.2005; n. 17039; Cass. 20.11.2006, n. 24591; Cass. 20.12.2006, n. 27197; Cass. 5.10.2007, n. 20895; Cass. 27.5.2008; n. 13812; Cass. 11.6.2008, n. 15496; Cass. 11.6.2008, n. 15469; Cass. 24.6.2009, n. 14835; Cass. 15.7.2009, n. 16498; Cass. 15.12.2009, n. 26232).
A giudizio della Cassazione, il recesso intimato al dirigente deve essere supportato non da una giusta causa o un giustificato motivo, ma dalla giustificatezza che – comunque – è da intendersi come una forma peculiare di giusta causa applicata al lavoro dirigenziale; a ben vedere infatti, la giustificatezza non è altro che il venir meno di tutti i presupposti per la prosecuzione di un incarico dirigenziale affidato da parte dell’imprenditore, e ciò in ragione di un qualsiasi motivo “… purchè apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legale di fiducia con il datore, nel cui ambito rientra l’ampiezza dei poteri attribuiti al dirigente”.
Chiaramente non viene esclusa la possibilità di recedere dal rapporto per motivo oggettivo come nel caso in cui, ad esempio, a seguito di ristrutturazione aziendale le funzioni del dirigente vengano assorbite o del tutto soppresse; in realtà, per quello che interessa in questa sede, il vero nocciolo della questione risiede nella distinzione  tra la giusta causa o giustificato motivo (da un lato) e la giustificatezza (dall’altro): la giustificatezza, infatti, non si presume quale extrema ratio di risoluzione anticipata del rapporto – come invece avviene normalmente per giusta causa e giustificato motivo – ma rappresenta un ordinario strumento di gestione del rapporto di lavoro con un soggetto (il dirigente per l’appunto) il cui ruolo all’interno dell’azienda è di estremo di rilievo.
Anche per questo si può escludere, infatti, una qualsiasi richiesta di repechage.
La giusta causa di recesso
E’ opportuno ricordare, seppur brevemente, quali siano i requisiti essenziali della giusta causa di recesso così come stabiliti dal codice civile.
L’art. 2119 cod. civ. stabilisce infatti che, per aversi un legittimo licenziamento per giusta causa, devono sussistere delle condizioni talmente gravi che ledono irrevocabilmente e irrimediabilmente il vincolo fiduciario che lega il datore di lavoro con il prestatore; si parla, a tal proposito, di una lesione talmente grave da non permettere “… la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto di lavoro”. E tali condizioni valgono sia per un normale dipendente che per un Dirigente, apicale o meno che sia
E’ chiaro che si tratta di uno strumento estremo che entra in gioco ogni qualvolta la condotta del lavoratore sia antitetica all’attività aziendale: la giusta causa è, anche ontologicamente, la condizione netta di chiusura di un rapporto di lavoro, che il datore adotta per tutelare l’attività produttiva e, quindi, anche i livelli occupazionali.
Chiaramente, la giusta causa di recesso può consistere tanto in un unico comportamento doloso del lavoratore, quanto in una pluralità di comportamenti che da soli non sarebbero sufficienti a giustificare il licenziamento; ciò che accade molto spesso, infatti, è di riscontrare controversie in materia di lavoro aventi ad oggetto il licenziamento per giusta causa intimato a seguito di un’unica vicenda oggetto di procedimento disciplinare: di per sé l’intimazione di un licenziamento a fronte di un unico evento lesivo della reciproca fiducia non è illegittimo ma la controversia, eventuale, che ne deriverebbe ha quantomeno diversi margini di incertezza.
Solo l’analisi del caso concreto permette di capire se il licenziamento possa considerarsi legittimo oppure no, poiché la condotta del dirigente va valutata all’interno di uno specifico contesto aziendale al fine di evitare decisioni del tutto estranee dalla peculiarità del caso e basate solo ed esclusivamente sulle posizioni manualistiche.
L’onere della prova della giusta causa o della giustificatezza
E’ appena il caso di ricordare che anche relativamente ai dirigenti l’onere della prova della giustificatezza del recesso grava, comunque, sul datore di lavoro: “In relazione alla contrattazione collettiva per i dirigenti di azienda, che, pur consentendo alle parti di risolvere il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, obbliga il datore di lavoro recedente a pagare una indennità ove non sussistano motivi idonei a giustificare il recesso, il medesimo datore di lavoro è tenuto – in applicazione dei principi generali sull’onere della prova – a dimostrare in caso di controversia la veridicità e la fondatezza dei motivi addotti, nonché la loro idoneità a giustificare il recesso, se intende essere esonerato dall’obbligo di corrispondere la predetta indennità” (cfr sul punto Cass. 10.12.1993 n. 12184).
Nello stesso senso è utile un rapido confronto con altre pronunce della giurisprudenza di legittimità, ovvero:
Cass. 26.2.2000, n. 2192,
“Poiché l’art. 5 l. n. 604 del 1966 pone a carico del datore di lavoro la prova dei fatti che giustifichino l’esercizio del potere di licenziare il lavoratore, l’istituto di credito che abbia contestato ad un suo dirigente l’esercizio di facoltà che non gli competevano, ha l’onere di provare che effettivamente gli atti formanti oggetto di addebito travalicavano i limiti delle competenze del dirigente”;
e Cass. 7.7.1992, n. 8263,
“In relazione ad un contratto collettivo che, pur consentendo alle parti di risolvere il rapporto di lavoro a tempo indeterminato (non essendo applicabili – come nel caso, di specie, di licenziamento di dirigenti – norme limitative del potere di licenziare), obbliga il datore di lavoro recedente a pagare un’indennità ove non sussistano motivi idonei a giustificare il recesso, l’onere di provare – in caso di contestazione – l’esistenza di tali motivi ricade sullo stesso datore, in applicazione non dell’art. 5, l. n. 604 del 1966 ma del principio generale espresso dall’art. 1218 c.c., in forza del quale è obbligato a non licenziare se non in presenza di validi motivi a dover dimostrare di essersi comportato in maniera aderente alle regole del rapporto obbligatorio”.
La sentenza della Cassazione 17 marzo 2014, n. 6110
A questo punto, la conclusione del ragionamento sin qui fatto passa attraverso l’analisi della sentenza della Cassazione 17 marzo 2014, n. 6110, della quale si indica la massima:
“Ai fini della giustificatezza del licenziamento del dirigente, può rilevare qualsiasi motivo, purché esso possa costituire la base per una motivazione coerente e sorretta da motivi apprezzabili sul piano del diritto, a fronte del quale non è necessaria un’analitica verifica di specifiche condizioni, ma è sufficiente una valutazione globale che escluda l’arbitrarietà del licenziamento, in quanto riferito a circostanze idonee a turbare il legame di fiducia con il datore, nel cui ambito rientra l’ampiezza dei poteri attribuiti al dirigente”.
Si è di fronte ad un caso di scuola.
Il Dirigente Tizio, licenziato per giusta causa, ha impugnato il recesso con ricorso ex art. 414 cod. proc. civ. chiedendo la reintegrazione nel posto di lavoro con risarcimento del danno e, in via subordinata, il pagamento dell’indennità di mancato preavviso; il licenziamento era connesso ad una particolare situazione di presunta “insubordinazione” da parte del dirigente il quale aveva assunto un “…atteggiamento di radicale opposizione alle gerarchie e direttive aziendali e di messa in discussione della posizione e del ruolo” della società all’interno del gruppo. Più nello specifico, si legge in motivazione, Tizio aveva inviato due lettere con le quali ha contestato la validità di alcune circolari aziendali ritenendo le stesse limitative dei propri poteri e diffidando l’azienda a provvedere alla revoca, pena l’azione giudiziaria.
Il ricorso è stato rigettato in primo grado mentre il Giudice d’Appello ha riconosciuto al dirigente Tizio unicamente il diritto al preavviso, non ravvedendo – in tale condotta – un motivo talmente grave da non permettere la prosecuzione provvisoria del rapporto; in estrema sintesi la Corte di Appello ha ritenuto il licenziamento sorretto da “giustificatezza” ma non da “giusta causa” e, pertanto, ha condannato l’azienda al pagamento dell’indennità sostitutiva.
La Corte di Cassazione, adita da Tizio per ottenere anche il pagamento dell’indennità supplementare, ha rovesciato la posizione del Giudice di secondo grado.
Ad avviso della Cassazione, infatti, il comportamento del dirigente Tizio non può ritenersi legittima né, tantomeno, fondata su argomenti giuridicamente sostenibili in quanto – anche in ragione dello specifico ruolo ricoperto all’interno della compagine aziendale – la condotta ha assunto le caratteristiche e le modalità tipiche di una insubordinazione grave, non tollerabile da chi ricopre un ruolo direttivo; nel motivare il proprio ragionamento, la Cassazione aderisce all’orientamento prevalente in materia secondo cui il licenziamento del dirigente è sempre valido se non viene dimostrata l’arbitrarietà dello stesso, se non anche la natura discriminatoria.
Sul punto cfr. Cass. 27.8.2003, n. 12562, nonché Cass. 19.8.2005, n. 17039 e anche Cass. 10.4.2012, n. 5671.
Valutazioni conclusive 
Il ruolo del dirigente, le responsabilità ed i poteri che allo stesso sono attribuiti, rendono il rapporto di lavoro estremamente flessibile e suscettibile di essere interrotto molto più facilmente di come potrebbe avvenire per un ordinario dipendente; per comprendere a pieno questa differenza, occorre necessariamente guardare alla distinzione tra “giustificatezza” e “giusta causa” di licenziamento, considerando la prima come la causa più immediata e scontata di recesso e, invero, la seconda, la condizione più dura e radicale.
In presenza di una giustificatezza del licenziamento si cade nelle ipotesi tipiche di un licenziamento per giustificato motivo soggettivo, con conseguente diritto del Dirigente al preavviso o alla corrispondente indennità sostitutiva (mediamente, 12 mensilità); in presenza, invece, di una giusta causa, la lesione del vincolo fiduciario è talmente grave da non garantire il diritto al preavviso.
Solo nel caso in cui il motivo addotto a sostegno del licenziamento disciplinare sia poi dimostrato insussistente, arbitrario o discriminatorio, allora al dirigente spetta – in aggiunta al preavviso – anche la c.d. indennità supplementare, il cui valore è mediamente di 24 mensilità, ma varia in ragione del tipo di c.c.n.l. applicato.

 

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